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In carne e ossa. DNA, cibo e culture dell'uomo preistorico

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Tropico
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In carne e ossa. DNA, cibo e culture dell'uomo preistorico

I più recenti studi sull'evoluzione umana hanno sovvertito la ricostruzione accettata finora: oggi si sa che le specie non si sono succedute le une alle altre secondo un percorso lineare, ma che alle nostre spalle c'è un vero e proprio cespuglio evolutivo in cui specie diverse hanno convissuto fianco a fianco. La "rivoluzione" teorica ha investito anche la composizione dei gruppi di ricerca, orientando diversi campi del sapere a una collaborazione indispensabile per comporre la visione naturalistica della nostra origine e della nostra storia. In questo libro, biologia e archeologia discutono come i fossili, il DNA, l'ambiente nutrizionale e quello culturale hanno interagito per fare di noi quello che siamo: la specie a cui il semplice caso ha lasciato in eredità la capacità di comprendere il mondo e salvaguardarlo.

Gli studi di antropogenetica hanno aperto una nuova via all'interpretazione dell'evoluzione umana, dando un notevole impulso alla risoluzione di problematiche che il semplice studio dei fossili non poteva affrontare compiutamente.

Le potenzialità delle nuove tecniche d'indagine hanno in alcuni casi portato a una visione riduzionista di quelle stesse problematiche, mostrandone i limiti nel contesto antropologico. Da qui, la conferma della necessità di un dialogo tra più discipline per comprendere pienamente i meccanismi e le modalità dell'evoluzione umana.

La forza di questo approccio interdisciplinare è dimostrato ampiamente in questo volume edito da Laterza e promosso dalla Fondazione Santa Lucia, che non solo mette in luce lo stretto collegamento tra genetica, alimentazione e cultura umana, ma affronta tale relazione in maniera trasversale, attingendo alle competenze dei singoli Autori.

Un antropologo fisico, un'antropogenetista, un biochimico nutrizionista e un paletnologo si inseriscono nel tema dell'evoluzione umana da diverse angolature, che il libro dispiega in tre sezioni distinte ma intrecciate tra loro.

Il ritmo delle scoperte nel campo paleoantropologico e paletnologico e l'avanzare degli studi di antropogenetica hanno richiesto un confronto diretto tra gli studiosi sull'interpretazione stessa dei dati e sul quadro che essi suggeriscono, mentre l'accumulo delle prove della speciazione dell'uomo rende necessario un costante aggiornamento sia da parte degli specialisti che di chiunque si interessi di evoluzione umana.

Nel volume di Laterza tale confronto si arricchisce di una sezione poco evidenziata negli studi di settore: il ruolo e il tipo dell'alimentazione nell'evoluzione umana. Ciò lo include nei pochi esempi di testi pubblicati in Italia e destinati a un vasto pubblico che danno voce all'esigenza di interdisciplinarietà.

Indagare la relazione tra alimentazione, evoluzione e cultura significa capire le modalità di adattamento della specie umana all'ambiente.
Ne emerge una sintesi a più mani non specialistica ma sicuramente innovativa, capace di rendere il grande affresco del cammino dell'uomo e restituirgli quel "posto nella natura" che la visione antropocentrica aveva svuotato di senso.

Un'integrazione che si presta ad altre letture e a numerosi approfondimenti, mostrando l'assenza virtuale di limiti nella possibilità di collaborazione tra le singole discipline e specializzazioni.

Leggere dunque della relazione tra alimentazione, innovazioni culturali e mutazioni genetiche offre una prospettiva della nostra speciazione decisamente inusuale rispetto ai testi che di solito è possibile leggere sull'argomento.

Speciazione che non è avvenuta in maniera lineare, ma che è la risultante di quel "cespuglio evolutivo" diventato ormai familiare a chi si interessa di paleoantropologia.
Non una sola specie umana cambiata nel corso del tempo, allora, ma diverse specie gemmate da antenati comuni e che si sono estinte via via nel corso del tempo lasciando però spazio solo a Homo sapiens.

Gianfranco Biondi e Olga Rickards, nella prima parte del testo, descrivono come si è arrivati alla definizione di "cespuglio evolutivo" a partire dalla visione antropocentrica della fine del XIX secolo. Visione che segnava il clima scientifico del periodo in cui venne pubblicato "L'Origine delle Specie" da parte di Charles Darwin, convinto che il genere umano fosse nato in Africa, a dispetto dell'opinione comune dei suoi contemporanei.

Dalla pubblicazione del fondamentale libro di Darwin le prove dell'evoluzione si sono accumulate e sono stati scoperti sempre più fossili che testimoniano un cammino in divenire della nostra specie. Ora il problema non è più provare che vi è stata un'evoluzione, ma fare ordine nei dati provenienti dalle analisi antropogenetiche e paleoantropologiche per definire il più possibile tale cammino.

Biondi e Rickards illustrano i fossili scoperti fino a ora indicandone le caratteristiche principali, creando un percorso a tappe lungo l'evoluzione. A partire da Sahelanthropus tchadensis, meglio noto come Toumaï, per passare a Orrorin tugenensis (il millennium man) e ai generi Ardipithecus e Australopithecus.

Fossili non certo scoperti in sequenza, e su cui molti discutono ancora circa la reale collocazione cronologica lungo l'albero evolutivo. I due Autori, non a caso, discutono sul fatto che le prove antropogenetiche dovrebbero essere meglio valorizzate in questo contesto, essendo meno inclini alla soggettività dei ricercatori.

Nel mentre, descrivono come sia cambiata la modalità di percepire lo stesso cammino evolutivo nel corso del tempo: da un modello lineare che, dalle scimmie antropomorfe, arrivava alla specie umana attuale, la numerosità dei fossili ha suggerito un modello più articolato, in cui la linearità cedeva il passo a ramificazioni più o meno articolate.

Non un semplice elenco di fossili quindi, ma una dissertazione discorsiva su quella che è stata la storia della paleoantropologia fino ai nostri giorni: una storia fatta di scoperte, ma anche di ipotesi e teorie e soprattutto di ricercatori, di cui si raccontano le vicissitudini e le storie di vita.
Una dissertazione ricca di elementi poco noti, anche ai cultori della materia.

E in tutta questa prima sezione, rimane sullo sfondo una domanda fondamentale: che cosa ha distinto il genere Homo dai generi che lo hanno preceduto? Homo habilis è considerato il primo rappresentante del genere umano e fu chiamato così per i manufatti ritrovati nello stesso strato di sedimento dei fossili a lui associati.

Tuttavia, la sua posizione tassonomica, per quanto abbastanza stabile, è ancora oggetto di discussione tra gli studiosi. Per alcuni infatti le caratteristiche tipologiche di Homo habilis sarebbero ancora ascrivibili al genere Australopithecus, aprendo non solo un dibattito sul genere che ha inventato la tecnologia litica, ma anche sulle caratteristiche che una specie dovrebbe avere per essere annoverata nel genere Homo.

Un dibattito non di poco conto, che sposterebbe il baricentro della nostra storia ben più indietro nel tempo e cambiando lo stesso paradigma antropocentrico.

Ancora, accanto a questo punto di discussione, vi è quello circa il reale numero di specie. La domanda che i ricercatori si pongono è se nel cammino evolutivo "si sono susseguite tante specie poco variabili o meno specie più variabili", ovvero se "la nostra evoluzione ha avuto un andamento a cespuglio con un buon numero di rami, come molte prove stanno a indicare, o [se] il cespuglio dovrebbe essere drasticamente potato".

Problematiche ritornate prepotentemente alla ribalta con la scoperta di Homo floresiensis, su cui il dibattito ancora in corso assume a volte toni accesi e che ricorda le dispute sui resti dell'uomo di Neanderthal a cui è dedicato un intero capitolo. Un "cugino filogenetico" su cui si sono riversati i pregiudizi degli studiosi e del pensiero comune e che continua ad affascinare.

Da bruto con la clava, il Neanderthal è divenuto un rappresentante del genere Homo a tutti gli effetti, non molto diverso da Homo sapiens arcaico, in fondo, e dotato di una cultura raffinata. Gli aneddoti che gli Autori raccontano e le vicende legate alla classificazione di questa specie dimostrano quanto lo stesso ambiente degli studi paleoantropologici sia in divenire e si trasformi grazie al numero di prove scientifiche accumulate.

Prove che rappresentano l'unico fattore oggettivo utile alla discussione: tra queste, quelle fornite dalle indagini antropogenetiche sono risultate preziose e convincenti, facendo chiarezza sulle migrazioni di Homo sapiens fuori dall'Africa e le modalità di colonizzazione dell'intero pianeta, nonché sull'improponibilità biologica del concetto di "razza", la cui scientificità è a dir poco nulla.

E' qui che si inserisce la seconda parte del libro: curata da Giuseppe Rotilio, percorre non più la storia evolutiva umana, quanto la storia alimentare fino al Neolitico. Capitoli brevi e densi, molto facili da leggere e seguire, che disegnano un quadro organico del rapporto tra alimentazione ed evoluzione, senza scendere in dettagli troppo complessi ma mostrandone le sfaccettature più profonde.

Un quadro basato da una parte sull'onnivorismo della specie umana, fondamentale per reperire tutti i principi alimentari di cui necessita il metabolismo dell'uomo e utile per adattarsi ai più diversi ecosistemi; dall'altra sull'adattamento genetico richiesto per assimilare certe molecole e ottimizzare il rendimento energetico delle diete anche in contesti ecologici molto differenti tra loro.

Un adattamento che ha richiesto migliaia di anni ma che è sempre attuale, considerando la continua spinta all'innovazione nel campo alimentare evidente soprattutto nelle società odierne, per quanto permangano esempi di adattamento specializzato quando si considerano gruppi umani che vivono in ambienti praticamente immutati dal Pleistocene, come la tundra artica o la foresta amazzonica.

Questi particolari esempi offrono da un lato la possibilità di ipotizzare la possibile dieta dei nostri progenitori, dall'altra forniscono informazioni preziose sul rapporto tra espressione genica e alimentazione, ovvero tra alimentazione ed evoluzione umana.

In questo contesto è interessante lo studio delle malattie metaboliche, le cui dinamiche sono intrecciate alla storia alimentare umana e allo sviluppo culturale della nostra specie. Può sembrare paradossale, ma certe patologie oggi comuni e decisamente svantaggiose sono state in realtà di aiuto alla sopravvivenza dei nostri progenitori, soprattutto in tempo di carestia.

Del resto, l'evoluzione del corpo umano ha visto nell'alimentazione un fattore di successo: si pensi ad esempio al processo di encefalizzazione che ha portato a un aumento del volume cranico a sfavore della dimensione delle mascelle e dei relativi muscoli.

La nuova condizione anatomica rese la competizione per il cibo ancora più dura per i mutanti, che probabilmente trovarono molto più vantaggioso colonizzare, grazie soprattutto al bipedismo, le savane, dove trovarono anche cibo più adatto al loro apparato masticatorio e capace di supportare il fabbisogno energetico del loro aumentato cervello.

Un processo che è andato oltre e ha coinvolto l'apparato digerente e lo smalto dei denti, in condizioni in cui un cambiamento influiva sull'altro. E' evidente che il rapporto tra cibo e modificazioni anatomiche è molto stretto quanto sottovalutato nelle trattazioni paleoantropologiche.

Indubbio l'accenno alla "scoperta" della carne come alimento energetico capace di fornire l'apporto adeguato di principi nutritivi atti a sostenere l'encefalizzazione, ma il ruolo dei vegetali è alquanto sottovalutato, per quanto sia probabile che, soprattutto nelle specie più antiche, fossero la parte principale della dieta.

I vegetali, inoltre, fornivano quegli enzimi altrimenti non rintracciabili in altri alimenti. A questo proposito, Rotilio discute l'ipotesi degli USO (Underground Storage Organs), ovvero l'alimentazione a base di parti sotterranee delle piante come tuberi e radici. In tal caso, bisognerebbe ammettere anche l'uso di strumenti di scavo, rendendo molto più complessa la figura dei nostri primi progenitori.

E gli strumenti, specie quelli utilizzati per la macellazione delle carcasse animali, si sono fatti più sofisticati a mano a mano che cresceva la competizione con i grossi carnivori. La carne assume, quindi, un ruolo determinante nel processo di ominazione e nella definizione di quell'onnivorismo di cui si è detto.

Non solo, un'alimentazione a base di carne permette l'accorciamento dell'intestino, come si nota dalla struttura anatomica di Homo ergaster, andando a costituire una morfologia corporea atta ai lunghi spostamenti, con la possibilità di colonizzare nuove aree.

Le migrazioni umane, dunque, devono la loro origine anche alla dieta carnea, essendo riconosciuto che gli erbivori tendono a colonizzare ambienti specifici a seguito della presenza di determinate specie vegetali, a differenza dei carnivori che sono in grado di spostarsi.

Ma, rispetto a specie prettamente carnivore, l'uomo sfrutta una socialità spiccata che è stato un ulteriore aiuto nel processo di colonizzazione. Notevoli, a questo riguardo, le considerazioni dell'Autore circa la nascita del gruppo sociale, portate al lettore attraverso la discussione sulle caratteristiche di alcune fossili appartenenti a specie differenti.

Rimane aperta la discussione sui tempi di acquisizione dell'uso del fuoco, che sicuramente giovò all'alimentazione umana con la cottura dei cibi. Ma, nel contempo, obbligò a mantenere alta l'assunzione di vegetali a causa dell'inattivazione di certi enzimi con la cottura.

Ancora, cuocere i cibi ebbe ripercussioni sul sistema immunitario e sullo svezzamento dei bambini, su cui l'Autore accenna alcune considerazioni relative alle società attuali particolarmente importanti, quando afferma che "l'alimentazione incongrua diffusa in molti paesi industrializzati rende il latte materno molto povero di nutrienti, e rende spesso opportuna la sua sostituzione con latte artificiale opportunamente formulato".

Sullo sfondo della relazione tra cibo ed evoluzione, la necessità del cervello di un notevole fabbisogno nutrizionale a scapito di altri organi, caratteristica che si situa nell'"ipotesi degli organi costosi" e considera la capacità dell'encefalo di lavorare anche in condizioni di alimentazione insoddisfacente. Un adattamento evolutivo importante che assicura il fabbisogno di risorse per questo organo, soprattutto durante lo sviluppo dell'individuo.

L'Autore continua descrivendo il ruolo importante che il grasso ha avuto nell'alimentazione, e le modalità con cui i nostri progenitori riuscivano a procurarselo. In questo contesto, Rotilio discute sulla pratica della caccia e dell'estrazione del grasso dalle ossa animali, arrivando a considerare i casi di cannibalismo.

La caccia, in particolare, è una pratica che necessita di un sistema di comunicazione efficiente, oltre che di capacità tecniche notevoli per costruire armi appropriate. Ecco che l'Autore giunge ad aprirsi a un contesto più vasto che ruota attorno alla storia dell'alimentazione, aggiungendo notazioni di carattere culturale che introducono la fine della sezione, dedicata all'avvento dell'agricoltura e ai suoi effetti sulla fisiologia umana.

La capacità di comunicare e la costruzione di strumenti sono due aspetti legati al concetto di cultura, che esprime, come indica Fabio Martini nella terza parte del testo, "la capacità di relazionarsi attivamente con l'ambiente mediante un sistema organico di risposte alle induzioni esterne, secondo un codice comportamentale condiviso dalla comunità".

Una definizione che Martini contestualizza nell'ambito del libro, quando discute sui caratteri biologici e comportamentali del genere Homo, sulla sua capacità di astrazione e di relazione con l'ambiente circostante e cosa ha mosso, in definitiva, l'evoluzione culturale.

Se le prime fasi dell'ominazione corrispondono a un livello minimo di cultura, è pur vero che la capacità di ricavare uno strumento, seppur grezzo, da materia naturale rappresenta l'origine della cultura, per quanto lo stesso Autore inviti a non enfatizzare troppo tale gesto come simbolo di "emancipazione" dalla natura.

Il rapporto tra natura e cultura, infatti, è così peculiare che è difficile riuscire a definirne in modo chiaro le valenze. Gli adattamenti biologici e culturali sono subentrati in tempi diversi con modalità differenti e la relazione tra di essi non è del tutto palese.

Se pensare l'evoluzione umana in termini di sola evoluzione biologica può sembrare riduttivo, è pur vero che senza le modificazioni anatomiche descritte in precedenza non sarebbe stato possibile arrivare al momento della fabbricazione dei primi strumenti.

L'atto della fabbricazione di uno strumento segna sicuramente l'inizio di processi cognitivi che permangono nel genere umano, oltre a essere prova di riconoscimento della propria individualità contrapposta al fluire degli eventi: una capacità di astrarsi e di astrarre che rivela un atteggiamento interpretativo nei confronti della realtà.

Il simbolismo limitato nelle prime specie di Homo si riflette nella produzione di strumenti relativamente poco sofisticati: la lunga durata del periodo Paleolitico si spiega dunque con le scarse capacità di astrazione e di progettazione.

Ma è da notare che è proprio durante il Paleolitico che emergono "atteggiamenti sovrastrutturali" che si integrano nel formare l'umanità come noi la conosciamo: il linguaggio, il simbolismo, la capacità di astrazione la socialità si evolvono con un proprio tasso di mutazione, che si riflette nei "diversi gradi di trasformazioni indirizzati verso una progressiva predeterminazione dei manufatti".

I siti archeologici restituiscono solo quanto ha resistito al tempo, spesso sotto forma di strumenti e testimonianze di cultura materiale che vanno a corroborare un quadro comportamentale più ampio dato da indagini di tipo biologico, archeologico e paleoambientale.

Elementi comunque sufficienti a ricostruzione i processi di fabbricazione dei manufatti stessi, individuandone i caratteri (più o meno variabili) che li fanno appartenere a una determinata "industria" e li collocano in un determinato periodo cronologico.

Martini illustra le varie industrie litiche a partire dall'olduviana, tipica di Homo habilis, considerata la più antica forma di cultura materiale nota.
Ma l'Autore va oltre il mero elenco, quando collega tali industrie al possibile sistema di relazione tra l'individuo e l'ambiente, quando immagina i possibili usi degli strumenti stessi e ricava informazioni sull'organizzazione del territorio e delle risorse operata dai nostri progenitori.

Un'indovinata sintesi che si intreccia ai periodi cronologici scanditi dalle industrie litiche stesse, che segnano le tappe di un'evoluzione anche comportamentale, testimoniata ad esempio dalle amigdale acheuleane che sostanzialmente rappresentano il simbolo stesso della preistoria dal punto di vista paletnologico.

Evoluzione comportamentale che sfocia nella migrazione fuori dall'Africa, che da origine a culture relativamente diverse a seconda del continente colonizzato. Martini segue la pista dei nostri progenitori osservandone lo sviluppo psichico, con le probabili innovazioni a livello sociale che hanno accompagnato la nascita delle prime forme d'arte, la "scoperta" del fuoco e le prime manifestazioni rituali.

Un racconto esposto in capitoli corredati da una ricca bibliografia, che comprende sia testi specialistici che più divulgativi e che non si ferma solo alle opere più recenti in materia; capitoli che si legano alle altre due parti del volume allorquando completano e rilanciano informazioni già veicolate dagli altri Autori.

La prova di quella interdisciplinarietà che era tra gli scopi del libro e che si rivela esplicitamente quando il lettore collega i singoli paragrafi inerenti un singolo argomento. Ad esempio, l'epopea dei neanderthal è condensata in una sintesi divulgativa notevole, che va dall'antropogenetica alle tecniche litiche musteriane, alla comparsa dei primi rituali funerari.

Così è per Homo sapiens e i suoi rapporti con Homo neanderthalensis, e la colonizzazione degli spazi lasciati dall'estinzione di quest'ultimo. È il momento dell'Aurignaziano, in cui si nota una prima forma di condivisione culturale che abbraccia l'intero continente europeo, oltre a manifestazioni evidenti di una nuova tecnica che vede nella pietra, nell'osso e nell'avorio le materie di base.

Una condivisione culturale che si spezza con l'avvento delle glaciazioni e vede nel Gravettiano e Postgravettiano il risultato del suo sfaldamento, oltre che a nuovi assetti regionali di tipo culturale. Nasce in questo modo il Maddaleniano con le sue forme particolari, mentre l'Autore concentra la sua attenzione sulla penisola italica e sulle manifestazioni culturali che vi si insediano, di cui l'Epigravettiano rappresenta l'industria più evocativa.

L'ultima parte della sezione è dedicata alla nascita delle forme artistiche e ai rituali funerari, segno di uno psichismo decisamente più evoluto. Oltre a definire i vari stili artistici e le differenze regionali, Martini si sofferma giustamente sulla definizione di arte, non sempre applicabile ai reperti scavati, che termina in una riflessione attuale, visto che "senza dubbio deve ancora maturare nell'archeologia delle origini una metodologia di indagine del patrimonio figurativo che affronti il 'fare segno' in tutte le sue implicazioni, nella consapevolezza tuttavia che nessun modello teorico e nessuna metodologia potranno condurci alla conoscenza globale delle rappresentazioni preistoriche."

Martini non si ferma qui, ma affronta in maniera critica le testimonianze funerarie che denotano socialità e ritualità, ma anche un concetto di religioso che non va confuso col senso del magico. I termini usati per indicare la sfera del sacro sono spesso ambigui e interpretabili a fatica, se non si conosce il contesto di riferimento. Sfera che si collega comunque alle attività quotidiane dell'uomo e che ne enuncia una nuova visione della realtà, oltre che a un rapporto con l'ambiente più controllato.

Un viaggio dunque tra gli elementi costitutivi della nostra specie, che abbraccia sia l'aspetto biologico che l'aspetto culturale, capace, senza scendere in tecnicismi, di indicare al lettore un quadro di ampio respiro che lo riguarda da vicino.

Indice

Presentazione

Parte prima. Umani da sei milioni di anni, di Gianfranco Biondi e Olga Rickards

I. I primi passi della dinastia
II. Dall’evoluzione compare un "Homo"
III. Neandertal o l’avo mancato
IV. Sapienti e recenti

Parte seconda. L’alimentazione degli ominini fino alla rivoluzione agropastorale del Neolitico, di Giuseppe Rotilio

I. Dal cibo al DNA: alimentazione, geni e malattie
II. Dal DNA al cibo: selezione di un handicap
III. L’espansione del vegetarianismo nel Pliocene
IV. Cibi alternativi all’alba del Paleolitico
V. Nato per correre: "Homo erectus" e la rivoluzione alimentare del primo Pleistocene
VI. Interpretazione di reperti fossili in chiave alimentare e formazione delle prime società
VII. Il crudo e il cotto
VIII. Un primate con un grande cervello e un’ottima dieta
IX. Elogio del grasso: "survival of the fittest" o "survival of the fattest"?
X. Grassi speciali dall’acqua e dai litorali: la chiave nutrizionale per il grande cervello
XI. Balla coi lupi
XII. L’autunno del Paleolitico e della sua dieta

Parte terza. In principio. Origine ed evoluzione delle culture paleolitiche, di Fabio Martini

I. Dalla natura alla cultura
II. Neanderthal
III. 40.000-30.000 anni fa: la prima Europa
IV. Il grande freddo: trasformazioni e adattamenti dei cacciatori di renne e di mammut
V. Regioni e frontiere: il nuovo assetto dell’Europa postgravettiana (20.000-17.000 anni or sono)
VI. L’origine dell’arte: segni e colori al posto delle parole
VII. La cultura del morire
VIII. "Homo religiosus": modi e spazi dell’esperienza sacrale

Appendice
Gli autori
Moreno Tiziani
http://www.antrocom.it/Article236.html

La medicina ha fatto così tanti progressi che ormai più nessuno è sano. Huxley | La persona intelligente è quella, e solo quella, che riesce a mettere insieme più aspetti della realtà ed è capace di trovare tra di essi una correlazione. C.Malanga


   
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